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LA REGINA MARGOT
(LA REINE MARGOT)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 11 maggio 1994
 
di Patrice Chéreau, con Isabelle Adjani, Daniel Auteuil, Jean-Hugues Anglade, Vincent Perez, Virna Lisi, Miguel Bosé, Jean-Claude Brialy (Francia, 1994)
 
"Nessuno mi toglie dalla testa che la maggior preoccupazione di Patrice Chéreau, quando passa dall'attività teatrale a quella cinematografica, sia squisitamente - e perché no, visto che si tratta di un principe del palcoscenico - di tipo amletico: sarò altrettanto bravo sullo schermo che sulla scena?

Il grande, encomiabile impegno (anche per l'industria europea del cinema, che non si vede perché debba essere soltanto povera) di LA REINE MARGOT (cinque anni della mia vita, come ci dice il regista; senza contare i milioni del produttore Claude Berri, già impegolato nel farraginoso GERMINAL) finisce soprattutto per tradursi in questa sua angoscia. Nel bene, e ahimè, soprattutto nel male: immenso thriller storico, sapientemente - come sappiamo - organizzato dall'ineffabile Caterina de Medici (che Virna Lisi incarna con una maschera efficacissima, da cattivissima a metà strada tra la strega di Biancaneve e la mamma di Dracula), nel quale ci raccontano (ma non sarà inutile verificare, anche perché Chéreau interpreta liberamente Dumas, che già ci metteva molto del suo nella faccenda) dell'ingorda, ma sommo tutta infelice, ed alla fine magari pure disinteressata sua figliola, data in moglie per strategie meramente speculative al protestante Enrico di Navarra (il sempre attento Daniel Auteuil). E dei macelli che seguirono la sciagurata iniziativa: da quelli pubblici della Notte di San Bartolomeo, quando i cattolici Valois sterminarono per le strade di Parigi migliaia di Ugonotti invitati per le nozze, a quelli privati anche se non meno efferati con Caterina che avvelena un figlio (lo smunto e magari un attimo meno perverso di molti che gli stavano attorno, Carlo IX), inviandogli un libro dalle pagine avvelenate, che pero` era destinato ad un altro...

LA REINE MARGOT vuole innanzitutto "non" essere un film storico. C'è una sequenza nella tradizione del genere (il matrimonio a Nôtre- Dame, con i vescovi, i paramenti, cappe spade, inni sacri e tutta l'assistenza di circostanza): ma, altrimenti, Chéreau si è soprattutto preoccupato (con rispettabile esigenza estetica, ma forse non altrettanta lungimiranza commerciale) di restringere, concentrare gli angoli della propria visione: in una serie di continui, più convulsi che emozionanti primi piani.

Così facendo, non si è forse ritrovato il film storico (l'affresco, come si usa dire), che non voleva: ma al suo posto, un esagitato pugno di mosche. Un livido chiaroscuro dai sapienti riferimenti velasqueziani (indispensabile da sempre per permettere agli esegeti di citare Shakespeare), una sorta di groviglio del genere lotta greco-romana: fatto apposta per penetrare nell'intimità dei personaggi, per condividerne quasi fisicamente la violenza degli scontri, l'accostamento infido degli intrighi o quello, assai più raro, degli affetti. Ma insufficiente, in questa successione di momenti che ad alcuni sembreranno anche privilegiati, a costruire l'ossatura, per non dire la filosofia, di una pellicola da due ore e tre quarti.

Momenti privilegiati, forse, nell'attimo effimero del palcoscenico: quando il tempo dilatato, il soffermarsi su una situazione, il tendere la risonanza di una nota o di un colore all'infinito, giustificano l'enfasi espressiva che mantiene l'emozione, il contatto fisico con degli spettatori in una platea lontana. Ma cinematograficamente, senza il rinvio ad uno sfondo, ad un ambiente che contribuisca dialetticamente alla progressione drammatica, senza un'emozione che non sia solo epidermica, fatta di sudore e sangue allo spray nell'intervallo di una sequenza che s'intuisce estenuante, senza una vera motivazione per degli attori pure scrutati dalle focali lunghe (perfettamente levigato da non so quali alchimie cosmetiche, l'ammirevole ovale che corrisponde al viso d'Isabelle Adjani finisce riposto come un soprammobile prezioso di porcellana), anche la montagna d'inquadrature dinamicamente calibrate, di riferimenti culturali (la ricorrenza storica), politici (le pulizie etnico--religiose iugoslave) e psicologici (la progressiva degenerazione all'interno di un nucleo familiare) rincorsi da Chéreau finiscono per partorire il topolino, impotente e ripetitivo, di un cinema più attento alle manie personali che non agli individui ed alle loro storie."


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